Un’idea regalo green e originale per la nascita di un bimbo? Un albero

Un’idea regalo green e originale per la nascita di un bimbo? Un albero

“Abbiamo pensato avessi già tutto, così abbiamo regalato a Beatrice un albero che verrà piantato nel parco del quartiere, con il suo nome inciso su targhetta”.

È stata la sorpresa con cui mi hanno accolta i miei vicini di casa pochi giorni dopo la nascita di mia figlia.

Sì, hai letto bene: un albero in regalo. Qui racconto un progetto che mi è piaciuto tanto e che ognuno potrebbe proporre e far diventare realtà nel proprio quartiere/paese/città.

Non si tratta quindi di una pianta di quelle che si comprano dai fiorai o nelle serre e si possono tenere in casa, sul terrazzo o per chi ce l’ha in giardino. No. Un albero vero e proprio, di quelli da piantare ancora da piccoli in un parco grande, in attesa che crescano.

Un gesto che ho trovato davvero bello e che puoi scegliere di fare anche tu.

Quale migliore occasione per regalare un albero, se non ogni occasione e soprattutto la nascita di un bimbo?

I vantaggi nel regalare un albero reale sono molti

Credo sia il regalo perfetto per chi ha paura di sbagliare pensiero, per chi proprio non sa cosa prendere o teme di presentarsi con un doppione.

In particolare, nel caso della nascita di un bambino, non si rischierà di sbagliare taglia, modello, fantasia, stagione. Il bambino inoltre si ricorderà per sempre di chi gli ha regalato un albero, mentre tutine e body finiranno per destino nell’oblio.

Ottima scelta anche per chi non ha grandi possibilità di trasporto, per chi ha poco spazio in casa e per chi il pollice verde non sa cosa sia, perché verrà ordinato e piantato direttamente nel parco in cui viene realizzato il progetto.

Del resto quante persone vi hanno regalato un albero?

E poi, anche se fosse un regalo doppio oppure non gradito, non è certo possibile riportarlo indietro o peggio ancora riciclarlo a qualcun altro.

Insomma, il tuo regalo andrà senza dubbio a buon fine. Che sia per una nascita o per un’altra occasione.

Il progetto

Nel quartiere in cui abito, alla periferia del Comune Mantova e al confine con il territorio di Porto Mantovano è attivo il “Comitato di Quartiere Rabin”. Un gruppo di persone residenti nella zona, che anno dopo anno ha messo in moto diverse iniziative per creare comunità. Con lo sguardo sempre verso la tutela e la valorizzazione dell’ambiente e del verde.

Tra queste il progetto, rivolto a tutti e non solo ai residenti, “Donadotta un albero” per raccogliere i fondi necessari per ripopolare il giardino pubblico di piante e riuscire a creare anche una siepe.

L’obiettivo generale è la creazione di un bosco urbano nel parco del quartiere. Nello specifico l’implementazione di un ecosistema che preveda e favorisca la rigenerazione urbana, la tutela e lo sviluppo degli insetti utili come le api e le coccinelle, che consenta la diffusione della cultura green partendo dai più piccoli che potranno anche con le scuole visitare il parco con percorsi didattici.

Una prospettiva felice, in un mondo di esseri umani che l’ambiente lo stanno distruggendo.

Come fare per donare, adottare, regalare un albero

Molti alberi sono già stati piantati, ma il progetto rimarrà attivo ed è quindi possibile aderire.

Ogni albero costa dai 15 euro ai 20 euro, mentre le piante da siepe costano 5,30 euro.

Su ogni pianta verrà legata una targhetta in legno, con il nome della persona a cui si vuole fare il regalo, oppure solo il nome di chi ha fatto la donazione, in base alla singola richiesta ed esigenza.

Chi vuole partecipare può contattare i numeri 342.3793402 – 392.2533317, oppure inviare una mail all’indirizzo info@comitatoquartiererabin.it per chiedere maggiori informazioni.

“Mamma…e adesso?”. Scrivimi per raccontare la tua esperienza. 

Elena Caracciolo giornalista ufficio stampa consulente comunicazione gestione social e siti Mantova Elena Caracciolo – Sono giornalista pubblicista, freelance, mi occupo di comunicazione ed uffici stampa per privati, enti pubblici, aziende e associazioni di volontariato, dalla consulenza alla strategia, gestisco siti web e social e sono ideatrice di progetti rivolti a donne e mamme. 

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Donare il cordone ombelicale è una scelta d’amore

Donare il cordone ombelicale è una scelta d’amore

Forse non lo sai, oppure ne hai sentito parlare ma non ti sei mai informata/o fino in fondo: il cordone ombelicale contiene delle cellule preziosissime, ed è possibile donarlo.

Se sei incinta, se pensi di volere un figlio o se conosci qualche futuro genitore, contribuisci a diffondere questa possibilità che può salvare una vita.

In un articolo di qualche tempo fa sulla mia esperienza nell’ospedale di Mantova durante il parto, avevo fatto un accenno a questo argomento.

Ho voluto metterlo in evidenza dopo aver parlato con un’amica incinta, che non donerà il cordone del suo bambino perché qualcuno le ha detto che può rappresentare un rischio per il neonato.

Un’informazione non vera: non esistono rischi. Esiste solo una scelta di cuore a costo zero.

Una scelta che io ho fatto e che qualunque genitore, se mamma e bimbo stanno bene, può fare. Sarà bellissimo poter raccontare ai propri figli questo atto di amore e altruismo all’istante della loro nascita.

Perché donare il cordone ombelicale

Il trapianto di cellule staminali emopoietiche raccolte dal midollo osseo, dal sangue periferico e dal sangue del cordone ombelicale, rappresenta oggi l’unica terapia salvavita di successo per curare numerose malattie del sangue.

È possibile donare il sangue cordonale al termine del parto, dopo che il cordone ombelicale del bambino è stato reciso. Nei vasi cordonali rimane un po’ di sangue generalmente considerato prodotto di scarto. Questo sangue è invece ricco di cellule staminali che possono essere utilizzate per il trapianto di pazienti con leucemia o altre gravi malattie del sangue.

Se viene raccolto, la banca del sangue cordonale lo conserva per anni, restando a disposizione per le persone che necessitano di trapianto. Si può chiedere di donare volontariamente e gratuitamente il sangue cordonale.

È una scelta libera, personale e volontaria, che non comporta rischi né per la donna né per il bambino.

Cosa fare per donare il cordone

  • Se abiti in provincia di Mantova, per farlo è sufficiente contattare l’associazione Abeo di Mantova e prendere appuntamento intorno alle 36/38 settimane di gravidanza per un colloquio con la biologa.

Una volta preso appuntamento, basterà dedicare circa un’ora del proprio tempo per compilare dei documenti e rispondere ad alcune domande, che servono per accertare uno stato di salute idoneo di mamma e bambino.

  • Se risiedi in un’altra città/provincia, puoi fare riferimento all’ospedale del tuo territorio per chiedere informazioni, oppure contattare l’associazione di volontariato più vicina a te che si occupi del dono (come Admo o Avis).

Poco tempo per fare una cosa grande.

Abeo Donazione

È il programma di Abeo Mantova che si occupa di informare e sensibilizzare la cittadinanza sull’importanza e sul valore della donazione di cellule staminali.
Il trapianto di cellule staminali emopoietiche raccolte dal midollo osseo, dal sangue periferico e dal sangue del cordone ombelicale, rappresenta oggi l’unica terapia salvavita di successo per curare numerose malattie del sangue.

La probabilità di trovare un donatore compatibile è molto bassa: 25% tra fratelli, solo 1 su 100.000 tra non consanguinei. Ogni anno in Italia si contano 1.500 malati di leucemia e il 70% di questi sono giovani e bambini. Nella maggior parte dei casi, trovare un donatore compatibile è l’unica speranza di guarigione: ogni anno muoiono 100 bambini malati di leucemia, proprio perché non trovano un donatore.

Se ad essere malata fosse una persona a te cara, vorresti senza dubbio che tutte le mamme del mondo donassero il sangue cordonale dei propri bimbi.

“Mamma…e adesso?”. Scrivimi per raccontare la tua esperienza. 

Elena Caracciolo giornalista ufficio stampa consulente comunicazione gestione social e siti Mantova Elena Caracciolo – Sono giornalista pubblicista, freelance, mi occupo di comunicazione ed uffici stampa per privati, enti pubblici, aziende e associazioni di volontariato, dalla consulenza alla strategia, gestisco siti web e social e sono ideatrice di progetti rivolti a donne e mamme. 

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Come la legge sulla maternità non tutela mamma e bambino

Come la legge sulla maternità non tutela mamma e bambino

“Elena perché non scrivi che la maternità qui in Italia funziona uno schifo e non tutela affatto le donne che lavorano?”
 
“Mi piacerebbe avere un altro figlio, ma sono passati solo due anni dal primo e mi sa che se resto di nuovo incinta in qualche modo mi licenziano”.
 
I pensieri di due amiche credo siano gli stessi di tante tantissime altre mamme ed anche di non mamme.
 
 
Tengo subito a precisare che, come sempre, ciò che scrivo non può essere e non ha la pretesa di essere condiviso da tutti. Cerco di racchiudere in una modesta manciata di parole le esperienze della maggior parte delle persone con cui mi trovo a confrontarmi, a chiacchierare, ad aiutare nel mio piccolo e per quanto riesco a fare.
 
Lo voglio ricordare: sono convinta che le reti di aiuto siano un’arma potentissima per combattere le emozioni negative e per moltiplicare quelle positive.
 

La maternità in Italia

 
In estrema sintesi (rimando per completezza al sito del girone infernale nominato Inps dove la questione è approfonditamente spiegata in lingua aliena). Nelle situazioni ordinarie in cui mamma e bimbo sono in salute per tutta la gravidanza, la mamma può astenersi dal lavoro due mesi prima della data presunta del parto e avrà un bonus fedeltà per l’astensione di altri tre mesi dopo il parto.
 
In alternativa, grazie alla super recente riforma per andare moltissimo incontro alle donne che lavorano, la mamma può continuare a lavorare più o meno finché non sentirà il primo vagito del bambino, segno della nascita, stando comodamente in ufficio. Come premio potrà allora usufruire di cinque mesi di astensione dopo il parto.
 
Poco importa che le ultime settimane di gravidanza siano una costellazione di notti in bianco, di corse a cercare un bagno per fare pipì ogni ottodieci minuti, di sbalzi d’umore, di paure ed ansie, di affanno nel salire le scale, di esami, di fragilità emotiva e fisica.
 
Per chi non ci aveva mai pensato ebbene sì, un pancione che contiene un mini umano in costante crescita non è un dettaglio completamente trascurabile per quelle che se lo portano in giro e per chi sta loro accanto.
 
Esiste poi il congedo facoltativo. La bacchetta magica che consente di proseguire l’astensione dal lavoro dopo i tre mesi della creatura, per altri sei.
C’è forse una fregatura? Certamente.
Lo stipendio della mamma viene altrettanto magicamente assottigliato fino al trenta percento. Con la stessa delicatezza di un Alohomora lanciato da Hermione già nel primo Harry Potter per aprire una serratura. Un vero incantesimo.
Del resto non ci sono spese per mantenere un nuovo componente della famiglia. Sciocco chi lo pensa. Anzi, quasi quasi si risparmia quindi mica serve lo stipendio pieno.
 
Come dici? Tu che leggi sei una libera professionista e non hai nemmeno questa possibilità perché ad un certo punto se non lavori non guadagni? Ah beh, un po’ te lo sei cercata, lo Stato non può tutelare tutte tutte le categorie.
 
Colpa delle donne che vogliono essere madri e pure proseguire nel portare avanti la carriera.
E poi appunto si tratta di una scelta facoltativa, cioè fatti tuoi.
 
Per banalizzare la faccenda, un neonato di tre mesi viene quindi considerato praticamente autonomo e non bisognoso della mamma. Nella foto dell’anteprima potete vedere i piedi di mia figlia di tre mesi. Misurano sette centimetri e mezzo e lei non sa nemmeno ancora quasi di averli e a che cosa servano. Però attenzione: le manine le ha già scoperte settimane fa, quindi in effetti perché mi preoccupo tanto.
Tra l’altro ora c’è nell’aria questa nuova proposta. Il Governo sta studiando la possibilità di estendere il congedo obbligatorio per la nascita da cinque a sei mesi totali prevedendo che il papà ne utilizzi il 20%. Un mese.
 
Caspita! Grazie!
 
 
 
 
In Italia siamo ancora distanti quanto la Terra e Plutone dall’avere una riforma che tuteli, incoraggi e protegga – perché sì, c’è bisogno di protezione – le donne mamme con un’occupazione, che impedisca ai datori di lavoro di approfittarsene e che renda la società un luogo accogliente per i nuovi nati.
Una vera politica di conciliazione lavoro-famiglia ancora non esiste.
 

I bambini hanno bisogno della mamma

 
Non è una frase di comodo, non è una banalità, non è una leggenda.
Il corpo di una donna impiega nove mesi per creare un mini umano, mentre si pretende che tre mesi, cinque mesi, sei mesi di vita, siano sufficienti a rendere un bambino autonomo e non più estremamente dipendente dalla mamma o dalla sua figura genitoriale di riferimento.
Un bambino come ogni cucciolo per crescere, ha bisogno di una mamma fisicamente e mentalmente presente, il più possibile serena e tranquilla.
Non di una mamma preoccupata, in ansia.
Le preoccupazioni e le ansie sono già parte di lei dal momento in cui sa di essere incinta, aumentano fino al parto, per non parlare dell’istante in cui torna a casa con la creaturina.
E questo nelle situazioni ordinarie in cui non ci sono complicazioni.
 
Un bambino ha bisogno di contatto, di sorrisi, di cure, di attenzioni. Ha bisogno di farsi conoscere e capire, di avere fiducia.
Un bambino ha bisogno di presenza fisica costante, di sguardi, di baci, di coccole, di essere cullato, di sentire canzoncine e parole dolci. A tre mesi mangia ancora ogni tre ore e chi può allatta. Chi non può prepara biberon. Per farsi capire piange e in alcuni giorni piange spesso, perché questo è il suo modo di comunicare. Chi può capirlo e consolarlo è la mamma.
Anche la mamma ha bisogno del suo bambino (ma anche di ricominciare a volte a dormire, a mangiare regolarmente, a capire come gira di nuovo il mondo). Lei nasce insieme a lui.
 
Crescere al meglio un bambino ponendo delle basi solide per l’adulto che diventerà e tutelare una mamma non è una cosa superflua, non è un di più. È un investimento sul futuro della società in cui viviamo. Una mamma ed un bambino il più possibile felici, tranquilli, sereni, saranno in futuro una spesa minore per la collettività ed una risorsa maggiore.
 
Il costante aumento di neo mamme costrette a dimettersi dovrebbe far riflettere.
 
 
“Mamma…e adesso?”. Scrivimi per raccontare la tua esperienza. 

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Il miglior regalo di Natale che ci si possa fare: prendersi del tempo

Il miglior regalo di Natale che ci si possa fare: prendersi del tempo

Volevo scrivere una accurata riflessione su come funziona (male) la maternità in Italia.
Come è cambiata l’obbligatoria con la nuova flessibilità, la facoltativa e cosa succede invece per chi è libera professionista. Quali diritti (non) ci sono. Avevo raccolto diverse esperienze da pubblicare e selezionato i siti informativi più autorevoli in merito.

Poi è successa una cosa.

Così ho deciso di cambiare programma, mettere per un momento da parte tutto e scrivere con il cuore.

È successo che mi è comparso davanti agli occhi un articolo su come ottimizzare il tempo dell’allattamento (o del biberon, a seconda delle situazioni) nelle prime fasi di vita del bambino e rientrare presto al lavoro.
In sintesi: subito dopo il parto, con una mano puoi nutrire la tua creaturina mentre con l’altra puoi essere operativa al pc rispondendo alle mail, creando progetti, stare al telefono con capo, colleghi e clienti.
Durante l’allattamento, uno dei momenti più delicati proprio nelle prime fasi di vita.

Avete capito bene?

Ciò che avrei voluto scrivere sulla maternità era proprio che ogni cosa va contro il prendersi del tempo per la cura di se’ e del proprio figlio. Ogni nuova normativa non va nella direzione della vera tutela della donna e mamma, ma nella direzione del lavorare il più possibile. Durante la gravidanza, dopo la gravidanza, durante il parto magari. Perché no, del resto per diverse ore le mani sono entrambe libere e qualche scema in senso buono (come me) finisce davvero per rispondere ad un paio di mail.

Prendersi del tempo, e parlo di quello che spetterebbe ad ogni neo mamma, in questa società è a volte considerata una colpa.
Attenzione: lo stesso discorso vale per ogni momento di fragilità della vita. Una malattia, un infortunio, un lutto, una delusione. Fragilità non solo del corpo, anche dell’anima.
Non è più permesso essere fragili e rallentare o addirittura fermarsi per un periodo.

A maggior ragione per chi è incinta e diventa mamma. Quando alla fine tutto va bene è un avvenimento bello, felice, quindi ancora di più è una colpa prendersi del tempo.

Bisogna fare, correre, andare, ricominciare.
È quasi impossibile rallentare quando cresci in un mondo che ti fa sentire immediatamente in difetto.
Durante la gravidanza, se in alcune giornate proprio non riuscivo ad essere produttiva, subito qualcuno mi ricordava che non avevo fatto niente e avrei invece avuto tempo.
La stessa cosa è successa più volte dopo il parto.

Come a me, a tantissime altre donne che so essersi trovate esattamente nella stessa situazione.

Portare avanti una gravidanza, partorire, crescere un neonato non è fare niente. È una cosa enorme. Meravigliosa, sì. Che richiede un impegno psicologico e fisico gigantesco.

Tornando a quell’articolo, e peccato non fosse firmato altrimenti avrei cercato di rintracciare chi lo ha scritto, allattare (al seno o con il biberon) non significa avere del tempo libero.
Qualunque mamma, con quella famosa mano libera, farà spesso qualcosa d’altro senza che nessuno debba suggerirlo, perché qualunque mamma si trova a fare anche cinque attività in contemporanea.
Anche lavorare quando una se la sente. Ma la scelta deve essere libera.

Ciò che ritengo profondamente sbagliato è che gli input esterni siano tutti verso il continuare a correre.
I bambini di oggi (e il motivo per cui ne nascono sempre meno è sotto il nostro naso) sono gli adulti di domani. Le basi che vengono messe dai genitori, o dalla famiglia in generale, nei primi giorni, mesi, anni di vita possono fare la differenza rispetto alla persona che crescerà.
La società dovrebbe insegnare che prendersi del tempo per accudire un bambino è fondamentale.
La società invece insegna che è meglio fare alla svelta, perché se ti fermi un attimo in più potresti ritrovarti senza un lavoro. E allora come la manterrai in futuro quella piccola persona?

Il mio augurio per questo Natale è rivolto a chiunque stia attraversando una fase di fragilità della propria vita: se puoi rallenta e prenditi del tempo. Un domani ti guarderai indietro e ti ringrazierai per averlo fatto.

Quando è stata l’ultima volta?

 

“Mamma…e adesso?”. Scrivimi per raccontare la tua esperienza. 

Ad un mese dal parto racconto l’esperienza all’ospedale di Mantova, con qualche consiglio ed una scelta importante

Ad un mese dal parto racconto l’esperienza all’ospedale di Mantova, con qualche consiglio ed una scelta importante

Ciò che avrei voluto leggere o sentirmi raccontare da un’amica, prima del parto.
 
Doverosa premessa: sto scrivendo mentre allatto la creatura, ho gli occhi gonfi dal sonno e pure una certa fame.
 
Mi sembra incredibile, ma è passato un mese dalla nascita di mia figlia Beatrice. Sarà che a non dormire più si perde la concezione del tempo.. O che si viene inghiottite da un vortice di novità. Ho deciso di raccontare parte della mia esperienza all’ospedale Carlo Poma di Mantova, tralasciando i dettagli intimi, aggiungendo qualche consiglio.
 
 
Come quasi tutte le donne ho vissuto gran parte della gravidanza a temere quanto basta il momento del parto. Oggi invece, a distanza di trenta giri della Terra, ho dei momenti in cui vorrei farlo di nuovo ed altri in cui mi manca la pancia. A questo punto è già chiaro che il mio cervello ha subito qualche danno causato dagli ormoni.
 

Le principali domande, cioè preoccupazioni se non a tratti vero e proprio terrore, che mi sono posta nei nove mesi

– Quando succederà? Al termine, prima o dopo? La mia gravidanza durerà quanto quella di un elefante?
– Si romperanno le acque mentre mi trovo al supermercato a decidere se ingrassare con le Gocciole o con i Baiocchi?
– Riuscirò a sopportare il dolore come Xena la principessa guerriera nella puntata in cui viene ferita da Giove? Oppure chiederò se è possibile far partorire un’altra al posto mio?
– Mi sentirò in imbarazzo?
– La bambina avrà davvero tutte le dita delle mani e dei piedi come mi ha garantito la ginecologa?
– Il personale medico mi tratterà bene o finirò come quelle ragazze che hanno avuto pessime esperienze?
– Soprattutto: forse era meglio spendere un po’ di più per i pigiami acquistati come outfit ospedaliero considerando che mai rivedrò così tanti parenti e amici tutti insieme?
 
 
Insomma gli interrogativi erano infiniti. Le risposte pari a zero.
Una costante nella vita.
 

In ospedale

Avevo il termine il 10 ottobre. Gli ultimi giorni del nono mese sono durati circa centoventisei ore ciascuno.
Il 9 pomeriggio inizio a percepire qualcosa di strano. Qualcosa che somigliava alle contrazioni. La reazione a caldo è stata: Aspetta che chiedo prima ad un’amica se è proprio così. Ok è così. Oddio. Aiuto. Ci siamo. Non voglio farlo. Brutta idea questa faccenda del parto. Facciamo che non partorisco proprio, sono a posto così grazie. Per favore resta nella pancia. Stato d’animo proseguito fino alla nascita.
 
 
Il fastidio è diventato man mano dolore (mi baso su una scala del dolore femminile, perché su scala maschile era equivalente alla morte imminente). La sera del 9 intorno alle 22 decido con il mio compagno di andare in ospedale, al Poma di Mantova. Mi viene fatta circa un’ora di tracciato oltre alla visita. Mi dicono che è troppo presto, le contrazioni sono ogni cinque minuti e devono arrivare almeno ad ogni due. Verso mezzanotte mi invitano a tornare a casa e farmi una doccia calda. Mi fido e vado a casa, ma senza riuscire nemmeno a spogliarmi.
 
Un’ora dopo sono di nuovo in ospedale.
 
Il tracciato questa volta dura di più. Decidono di ricoverarmi. Verso le 4 mi mettono in reparto, in una stanza dove c’erano due neomamme con i bimbi. E mi chiedo se non ci possa essere un’area riservata alle donne in travaglio, in modo che non debbano stare nel letto accanto a chi ha appena partorito. Intorno alle 7, su mia richiesta, vengo visitata e spostata in sala parto senza nemmeno darmi il tempo di recuperare la borsa con portafoglio e documenti.
 

In sala parto

In sala parto ci arrivo spaventata e trovo degli angeli: le ostetriche. Professioniste che ho ringraziato pubblicamente anche con una lettera sulla Gazzetta di Mantova. Dal purgatorio al paradiso insomma.
 
 
Mi accolgono, mi rassicurano, mi trattano come se mi volessero bene. Dopo i primi controlli e the caldo con biscotti (non li volevo ma li ho divorati), mi accompagnano nella stanza in cui avrei visto mia figlia per la prima volta. Una stanza con letto, bagno, strumentazioni. Durante il travaglio mi vengono offerti assistenza costante, ascolto, cibo, possibilità di scelta per ogni dettaglio. Un unico intoppo: qualcosina deve non aver funzionato al meglio con l’epidurale (che non volevo fare ma poi cuor di leone ho cambiato idea) perché ad un certo punto mi si è addormentata buona parte del corpo e non riuscivo più a camminare.
 
Alla fine della lunga giornata, alle 20.57 è nata Beatrice.
Nota importante: ho donato il cordone ombelicale. Una scelta importante e sotto spiego meglio di cosa si tratta.
 
 
 

Un elenco di cosa portare nella borsa per l’ospedale

I miei suggerimenti:
 
– Shampoo a secco (comodo per non sentirsi pronte per la spremitura dei capelli dopo i primi due giorni)
– Salviette disinfettanti per il bagno (bagno da condividere con più persone estranee)
– Ciabatte per stare in stanza e ciabatte per la doccia (entrambi i paia eventualmente da buttare prima del ritorno a casa)
– Diversi asciugamani per il bidet (anche questi che si possano poi buttare)
– Un plaid (se la stagione è fredda, ad agosto andrà benone il lenzuolo fornito dall’ospedale)
– Un cuscino comodo
– Un carica batteria portatile (le prese non sempre sono accanto al letto ma distante)
– Gli auricolari
– Acqua (vedi sopra..)
– Uno spuntino gustoso per tirarsi su di morale la prima notte
 
 
 
 
Tutti gli esami eseguiti nel corso della gravidanza
– Documenti
– Effetti personali per mamma e bambino
– Abbigliamento intimo comodo per il travaglio e l’allattamento
– Calzini
– Reggiseno adatto all’allattamento e slip comodi che consentano l’utilizzo di assorbenti
– Prodotti per l’igiene personale
– Eventuali farmaci assunti a domicilio
– Quattro-sei cambi di abbigliamento per il neonato, adeguati alla stagione in corso
– Bavaglini
– Cuffietta e Calzine
– Busta con cognome e nome della mamma, contente un cambio completo da consegnare agli operatori al momento del parto.
 
 

La scelta di cuore di donare il cordone ombelicale

È possibile donare il sangue cordonale al termine del parto, dopo che il cordone ombelicale del bambino è stato reciso. Nei vasi cordonali rimane un po’ di sangue generalmente considerato prodotto di scarto. Questo sangue è invece ricco di cellule staminali che possono essere utilizzate per il trapianto di pazienti con leucemia o altre gravi malattie del sangue.
 
Se viene raccolto, la banca del sangue cordonale lo conserva per anni, restando a disposizione per le persone che necessitano di trapianto. Si può chiedere di donare volontariamente e gratuitamente il sangue cordonale. È una scelta libera, personale e volontaria, che non comporta rischi né per la donna né per il bambino.
 
Per farlo è sufficiente contattare l’associazione Abeo di Mantova e prendere appuntamento intorno alle 36/38 settimane di gravidanza per un colloquio e compilazione dei documenti con la biologa.
 
Poco tempo per fare una cosa grande.
 
 
“Mamma…e adesso?”. Scrivimi per raccontare la tua esperienza. 

Elena Caracciolo giornalista ufficio stampa consulente comunicazione gestione social e siti Mantova Elena Caracciolo – Sono giornalista pubblicista, freelance, mi occupo di comunicazione ed uffici stampa per privati, enti pubblici, aziende e associazioni di volontariato, dalla consulenza alla strategia, gestisco siti web e social e sono ideatrice di progetti rivolti a donne e mamme. 

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